E, ormai, penso in italiano

Recensione di Lisa Corva
sul Piccolo di Trieste , 19 gennaio 2010

"A ottant’anni non si hanno velleità letterarie: si vuole solo lasciare testimonianza". Così mi dice Igor Argamante al Caffè degli Specchi a Trieste, spiegandomi perché, a ottant’anni (è nato nel 1928), ha scritto un libro: "Gerico 1941 – Storie di ghetto e dintorni", per Bollati Boringhieri. 200 pagine di racconti che vengono da lontano: da un mondo che non esiste più, e di cui Argamante è l’attento testimone. Scrittore per caso, testimone per forza (come tutti quelli che hanno visto gli orrori della Storia), triestino per scelta: perché Argamante vive accanto al Faro, in una casa con le finestre che si spalancano sul mare e sul golfo. A Trieste è arrivato più di quarant’anni fa, in una giornata di sole e vento come quella di oggi, e ha deciso che non voleva vivere da nessun’altra parte. Scelta inusuale, per un manager dell’Olivetti, assunto da Adriano Olivetti stesso; avrebbe potuto decidere di vivere a Ivrea, quartier generale della società, o a Milano; ma visto che il suo campo d’azione erano gli affari con l’ex Jugoslavia, Trieste poteva essere, e Trieste è stata. Qui a Trieste ha vissuto con la moglie, una donna tedesca anche lei innamorata del golfo e del sole; qui a Trieste sono cresciuti i suoi figli. E qui a Trieste è nata anche la voglia di scrivere: di andare indietro con lo sguardo, ritrovare i volti e le voci del passato. E raccontare.
"Gerico 1941" è un libro di amorose contraddizioni. Parla del ghetto e di ebrei, ma è stato scritto da un non ebreo; racconta testardamente una città che non esiste più, neppure nel nome: la Wilno che ospitava il ghetto, che ha visto crescere l’autore, ora è Vilnius, capitale della Lituania; è scritto in italiano, da un uomo che è cresciuto parlando polacco e russo; ed è firmato con un nome apparentemente italiano, che sa tanto di Orlando Furioso, quando invece Argamante non è che l’italianizzazione di Argamakow. Ed è questo continuo slittamento di confini che rende prezioso il libro, in un mondo che vorremmo senza più confini, senza più orrori, senza più guerre. Ma per farlo, è necessario ricordare. Ricordiamo allora, insieme ad Argamante.

Lei dedica il suo libro ad un "ragazzo di Praga di nome Hansi". Chi era?
"Il mio grande amico d’infanzia. Un bambino ebreo del ghetto, un bambino in fuga da Praga. Niente in comune con me, che a Wilno c’ero nato, parlavo russo e polacco, non frequentavo la sinagoga ma la chiesa ortodossa (ci vado ancora: qui a Trieste, a San Spiridione: le preghiere sono in paleoslavo, le stesse). E’ a Hansi, però, che voglio dedicare queste pagine".
Non ha più saputo nulla del suo amico d’infanzia?
"Purtroppo no. Chissà, potrebbe essere ancora vivo, magari emigrato in America. O potrebbe essere morto in un campo di concentramento. Sono pochissimi i sopravvissuti del ghetto di Wilno. I più "fortunati" sono quelli che furono deportati dai sovietici nei gulag, perché poi, grazie a un accordo del ’41, furono liberati… Ma si muore davvero solo quando non c’è più nessuno che ricorda. E io, Hansi, lo volevo ricordare".
Così come, in "Morte da cani – Piccola storia stalinista", che è uscito per Il Mulino dieci anni fa, ha voluto ricordare suo padre.
"Sì: mio padre, Alexej Alexandrovic’ Argamakov. Arrestato nel ’39 dalla NKVD, la polizia segreta di Stalin, deportato, mai più rivisto. Ma non sono solo i miei ricordi: per raccontare la sua storia ho voluto vedere, leggere, studiare gli ultimi documenti che lo raccontano. No, non un suo diario. Ma il dossier n° 51879 del KGB".
Dunque questo è il suo obiettivo: salvare i ricordi. Raccontare una storia con l’aiuto della Storia.
"Perché "Gerico 1941" è la "parte frivola", la parte romanzata, di "Hansi", il libro che ho scritto, di memorie degli anni di guerra, dal ’39 al ’41. Ma attenzione: nessun racconto è inventato. Sono tutti ricordi personali, che ho supportato con ricerche d’archivio. Ad esempio, la storia terribile degli ebrei morti sul fiume Burg, in un’impossibile fuga al confine tra la Polonia occupata dai nazisti e quella occupata dai sovietici. I nazisti li spingono sul fiume ghiacciato, per farli annegare; ma il fiume regge. Così le guardie sovietiche, dall’altra parte del fiume, buttano delle bombe a mano: che spezzano il ghiaccio, e le acque inghiottono velocemente i fuggitivi. Una storia vera. Una storia che avevo sentito, da bambino. E che ho ritrovato, documentata, negli archivi dei delitti di guerra a Washington".
E’ stato a Washington, per le sue ricerche d’archivio?
"Niente viaggi: ho usato il prestito inter-bibliotecario. Grazie alla Biblioteca di piazzetta Hortis ho potuto consultare libri e documenti che sono arrivati per me dagli Stati Uniti, da Londra, e persino da Wilno".
Il ghetto di Wilno, che lei racconta, non c’è più; non c’è più neppure Wilno…
"O almeno non è più la stessa. Quando dico che torno e riconosco solo le pietre, che adesso nella città dove sono nato si parla una lingua non mia, che fa parte di un Paese non mio, so che qui a Trieste mi possono capire. So che i profughi istriani, ad esempio, mi possono capire. Se lo raccontassi a un francese…"
Quindi lei è tornato, a Wilno.
"Sì: la prima volta in epoca Gorbaciov. Ero in un viaggio d’affari, una missione Ice, l’Istituto del commercio estero, a Mosca e poi nei Paesi Baltici. A Riga mi sono staccato del gruppo e sono andato a Wilno. Il palazzo di mia nonna è ancora in piedi, anche se malridotto: perché quello che non ha danneggiato la guerra, l’ha fatto la "manutenzione" sovietica. Ma la villa dei miei ricordi d’infanzia più belli, in collina, con un boschetto di lillà che la separava dal fiume, non esiste più. Ora la collina è calva".
E il ghetto, lo scenario del libro?
"Sa che ogni volta che cammino per l’ex ghetto di Trieste, che ora sta tornando a nuova vita, mi viene in mente quello di Wilno? Come avrebbe potuto essere, come sarebbe potuto diventare. Ma nel ’44 non c’era più né uno scarafaggio né un ebreo. E tutto quello che non è stato distrutto dalla guerra è stato cancellato dagli urbanisti sovietici".
Raccontare una patria che non esiste più, per salvarla. Come Gregor von Rezzori, che con i suoi straordinari romanzi - a partire da "Tracce nella neve", Guanda - ha salvato la sua Czernowitz. Quando vi nacque era la capitale della Bucovina, parte dell’Impero Asburgico; poi passò alla Romania; oggi è in Ucraina. Lei sta facendo la stessa cosa con Wilno: prima Polonia, ora è Vilnius, Lituania. Un altro punto di contatto: anche von Rezzori finì a vivere, per caso o per scelta, in Italia.
"Conosco Gregor von Rezzori, grande scrittore. La sua lingua madre però era il tedesco. Invece la mia madrelingua è il polacco, la mia "padre-lingua" il russo, e la mia "fratello-lingua" l’italiano: se sono qui lo devo a mio fratello maggiore, che studiava letteratura italiana a Varsavia, che mi insegnò l’italiano quando ero ancora piccolo, che riuscì a farci arrivare in Italia. Il libro l’ho scritto in italiano. E, ormai, penso in italiano".

Lisa Corva